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Le leggi razziali

Le leggi razziali

Di Michele Sarfatti 
Studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel XX secolo.

La legislazione antiebraica dell'Italia fascista venne emanata a partire dal settembre 1938. Iniziò allora il periodo della “persecuzione dei diritti degli ebrei”, cui l’8 settembre 1943 subentrò il periodo della “persecuzione delle vite degli ebrei”.
La persecuzione ebbe per oggetto cittadini dello Stato. Questo aspetto la distinse dalla pur grave svolta razzistica del 1936-1937 contro i sudditi delle colonie africane. L’eguaglianza giuridica degli ebrei era stata sancita dal Regno di Sardegna nel corso della primavera 1848 ed era stata progressivamente estesa sino a Roma, liberata dal dominio del Papa nel 1870. Vi era stata insomma piena coincidenza tra il processo di emancipazione degli ebrei e il processo risorgimentale e di unità. L’introduzione dell’antisemitismo di Stato nel 1938 segnò la rottura e la cessazione di quel patto di eguale cittadinanza. Va precisato che il governo fascista non dispose la revoca generalizzata della cittadinanza italiana ai perseguitati. Tuttavia quello fu appunto il significato (e la percezione) della loro esclusione completa dalle forze armate e dalla vita della nazione.  Per questo le leggi antiebraiche del 1938 costituirono una profonda cesura nella storia d’Italia. Dal punto di vista fascista, la nuova normativa costituiva una riforma di ambito generale e di durata permanente, una riforma di struttura: l’Italia doveva essere per sempre ariana e antisemita.
La cesura opposta al 1938 fu costituita non tanto dall’abrogazione della legislazione antiebraica, che inizialmente fu disposta solo dagli Alleati nella Sicilia liberata nel luglio 1943, quanto piuttosto dall’ingresso e dalla totale accettazione dei combattenti ebrei nella Resistenza italiana nel settembre 1943.

Le leggi antiebraiche furono fortemente volute da Mussolini. Egli ne fu anche il principale redattore, e l’Archivio centrale dello Stato è colmo dei suoi autografi di bozze e testi definitivi. A mio parere la decisione di vararle non fu presa sull’onda del razzismo appena varato contro le popolazioni delle colonie in Africa, né ebbe il fine principale di colpire gli intellettuali o i ceti borghesi, o di concorrere alla costruzione del “nuovo” italiano e/o dello Stato totalitario. Né fu determinata dalla volontà di emulare la politica antiebraica dell’alleato tedesco. Mussolini decise d perseguitare gli ebrei proprio perché aveva maturato la decisione di perseguitare gli ebrei.
Si deve notare che nessuno degli altri governi e paesi antisemiti dell’epoca adottò tutti e tre i seguenti atti, e che anzi la maggioranza di essi non ne adottò alcuno. Il primo di essi fu l’elaborazione di un Manifesto ideologico, reso noto il 14 luglio 1938, scritto su dirette indicazioni di Mussolini e che fissava “quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza” (è quindi riduttivo denominarlo “manifesto degli scienziati razzisti”). Il secondo fu l’approvazione il 6 ottobre 1938 di una Dichiarazione sulla razza da parte del Gran consiglio del fascismo, un organo di massima rilevanza costituzionale creato dal regime. Il terzo fu l’approvazione il 9 novembre 1938 del nuovo libro primo del codice civile, che all’articolo 1 stabiliva: “Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali”. Con ciò il fascismo trasformò l’Italia in uno Stato formalmente, profondamente e – secondo il regime fascista – definitivamente razzista e antisemita.
Il fascismo intendeva eliminare gli ebrei, italiani e stranieri, dal territorio italiano e dalla società italiana. Relativamente agli stranieri, il governo vietò nuovi ingressi aventi scopo di “residenza” e dispose l’espulsione di quelli entrati dopo il 1918. Successivamente vietò gli ingressi  aventi scopo di “soggiorno” e di “transito”. Quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, gli ebrei stranieri e apolidi ancora presenti nella penisola vennero per lo più internati in campi o in comuni, in attesa di essere espulsi alla fine del conflitto. Nei campi del 1940-1943 non vi furono violenze antisemite, ma l'internamento fu un provvedimento antisemita.
Relativamente agli ebrei italiani, inizialmente il governo fascista ne stimolò l’emigrazione. Nel 1940 avviò l’elaborazione di una legge di espulsione definitiva; il progetto venne però accantonato, a causa della guerra e del blocco dei confini. Anche per gli ebrei italiani furono decisi aggravamenti, che col trascorrere degli anni e il crescere delle sconfitte belliche divennero sempre più generalizzati e sempre più persecutori: dall’internamento di quelli giudicati maggiormente “pericolosi” (primavera 1940), al “lavoro obbligatorio” (maggio 1942), all’istituzione di “campi di internamento e lavoro obbligatorio” (giugno 1943; ossia poco prima del 25 luglio).
Dal 1938 al 1943 il regime emanò innumerevoli divieti, aventi per oggetto tutti i comparti della vita di una persona: gli ebrei furono espulsi dalla scuola pubblica (con alcune eccezioni, di
carattere complesso), dagli impieghi pubblici, in misura progressiva dal lavoro privato, dalla cultura, dallo spettacolo, dalle associazioni ricreative, dallo sport, ecc. Furono vietati i matrimoni “razzialmente misti”. Per quanto concerne l’ambito della scuola, i decreti-legge del settembre- novembre 1938 e le circolari ministeriali disposero l’espulsione dalle scuole pubbliche di presidi, direttori, docenti, impiegati e bidelli; vietarono la presenza di studenti “di razza ebraica” accanto agli studenti “di razza ariana”; proibirono l’utilizzo di libri di testo e di carte geografiche murali opera di autori “di razza ebraica”, anche se in collaborazione con autori “di razza ariana”.

Un provvedimento noto col fuorviante nome di “discriminazione” esentò da alcune (poche) norme persecutorie le famiglie un cui componente fosse caduto in guerra o per la causa fascista, o avesse altre specialissime “benemerenze”.
Come già detto, il fascismo italiano aveva l’obiettivo di “arianizzare” la società italiana. Così, le politiche di espulsione dai singoli ambiti della vita lavorativa, educativa e sociale e di separazione erano funzionali anche alla disebreizzazione e alla antisemitizzazione del Paese. E dall’autunno 1938 le scuole pubbliche educarono gli studenti “di razza ariana” a essere coscienti e orgogliosi della loro superiore arianità, della loro superiore cattolicità, della loro superiore bianchezza, della loro superiore fascistitudine.
La definizione legislativa di “razza ebraica” venne imperniata sul “razzismo biologico”. In base ad esso il discendente da quattro nonni classificati “di razza ebraica” era sempre classificato “di razza ebraica”, anche se lui stesso e magari i suoi due genitori erano battezzati. Allo stesso modo, un nipote di quattro nonni classificati “di razza ariana”, pur se convertitosi all’ebraismo, era sempre classificato “di razza ariana”. Gli italiani tutti, insomma, erano divenuti semplici trasmettitori generazionali di materiale biologico utile o disutile alla nazione. I figli di matrimoni “razzialmente misti” furono assegnati all’una o all’altra categoria sulla base di parametri connessi alla nazionalità o alla religione. Va rimarcato che, a seguito dell’adozione del criterio “razzistico biologico”, circa il 10 per cento delle persone assoggettate alla legislazione persecutoria era di fede cristiana. Da ciò consegue che la persecuzione “antiebraica” non colpì solo gli ebrei.
In questo modo, per cinque lunghi anni gli ebrei italiani furono progressivamente schedati, impoveriti, separati; dopo l’8 settembre 1943 ciò rese più facile il lavoro dei delatori e degli
arrestatori tedeschi e italiani, “di razza ariana”.

 

 

 

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