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Il pane perduto, di Edith Bruck

Il pane perduto, di Edith Bruck

In attesa di scoprire chi sarà il vincitore del Premio Strega 2021 facciamo i nostri complimenti ad Edith Bruck, la quale sarà nella cinquina dei finalisti con il volume "Il pane perduto"; con la stessa opera la scrittrice ungherese si è già aggiudicata l’ottava edizione del Premio Strega Giovani.

"Il pane perduto" è soltanto l’ultimo libro di una carriera letteraria lunga e fruttuosa, cominciata più di sessant’anni fa con la pubblicazione di "Chi ti ama così": da allora la Bruck ha intrecciato in maniera indissolubile la sua penna all’impegno per la memoria della Shoah. Ed è anche soltanto l’ultimo volume di un ampio e variegato panorama letterario, di cui Edith Bruck ha rappresentato una voce raffinatissima, che dalla fine dell’orrore dei campi di sterminio ha tenuto insieme le esigenze di scrittori e intellettuali di prestigio – si pensi a Primo Levi, a Elie Wiesel o a Jean Amery, o ancora ai versi di Paul Celan – e l’urgenza del testimoniare di moltissime vittime.

Un complesso mondo narrativo che ha sviluppato un proprio canone letterario e che ha avuto la capacità di scuotere le strutture stesse del racconto occidentale e dei suoi medium narrativi: Auschwitz, simbolo riconosciuto e riconoscibile dello sterminio nazifascista, ha rappresentato un confronto necessario per ripensare l’intera civiltà europea e non solo. Lo stesso fare memoria dell’esperienza concentrazionaria ha cambiato i connotati del nostro rapporto con il presente e con il fare storia dopo.

In questa riflessione che andrebbe ampliata "Il pane perduto" rappresenta un ulteriore libro-paradigma, avendo motivi comuni che appartengono alle storie della Shoah e quindi alla narrazione dei testimoni: le persecuzioni dei diritti; la vita nel ghetto; le deportazioni e l’esperienza lager, con la conseguente perdita dell’identità umana; l’incontro o il ricordo di persone che non si sono tirate indietro nel deserto umano del nazifascismo; il faticoso ritorno alla vita, con il rapporto spesso diretto con l’utopia del nascente Stato israeliano e il relativo confronto in chiaroscuro.

Ognuno di questi momenti ha rappresentato uno snodo nella vita della scrittrice ungherese e per questo ne "Il pane perduto" è assegnato loro uno spazio; e ogni spazio può rappresentare un focus, un modo per intrecciare piccole e grandi storie, un momento da cui gli insegnanti possono trarre spunti e approdi per lavorare in classe. Il tutto accompagnato da una scrittura delicata e accogliente, particolarmente indicata proprio per i ragazzi, una scrittura che si imbatte nel fiabesco – il libro inizia con “Tanto tempo fa c’era una bambina…” – nonostante l’intreccio con la disumanità assoluta dell’universo concentrazionario.

Nel raccontare della sua vita, Edith Bruck si sofferma inizialmente sulla sua infanzia in un villaggio ungherese, restituendo al lettore i suoi ricordi di bambina e in particolare l’impatto delle leggi razziali sulla propria esperienza scolastica. Una rottura prima di tutto affettiva, vista la passione di Edith per la scuola e il rapporto che si era instaurato con la sua maestra, Tarpai Klara, la quale cercava di ammorbidire l’effetto delle persecuzioni in provincia. L’assenza delle compagne ebree da scuola, però, diventò motivo di apprensione, soprattutto in un contesto in cui gli “adulti” non riuscivano a fornire una spiegazione a quegli avvenimenti: “Solo la buona maestra Tarpai Klara le diceva, vedendo il suo sguardo perso sui loro posti vuoti, ‘mi dispiace’ con un’espressione di chi non è in grado di fare niente”, scrive Edith. In quel ‘mi dispiace’ c’è tutto il compito sociale e affettivo della scuola di ieri e di oggi: non solo il luogo dell’apprendimento, ma quello del primo incontro con il mondo esterno e dell’interazione umana che ne deriva.

Nonostante la Bruck ricordi come l’applicazione delle leggi razziali nel suo villaggio sia stata mitigata dal coraggio dell’insegnante, soprattutto per il minor controllo esercitato dalle istituzioni in campagna, dal volume emerge come anche la convivenza scolastica tra cristiani ed ebrei venne messa a rischio dal crescente antisemitismo, un’ostilità che nell’Est-Europa rimarrà difficile anche nel dopoguerra. Scrive la Bruck, sempre riferendosi alla sua esperienza scolastica:

Il prete cattolico veniva una sola volta a settimana per dare lezioni a scuola ed era severo, punitivo e sgridava anche Ditke che rispondeva alle domande al posto delle compagne.
“Tu stai zitta, non ti riguarda, ripeti cinque volte il nostro Signore Cristo è risorto.”
“Io non posso” balbettava la povera Ditke terrorizzata.
“Allora vattene!” E lei sfatta dalla vergogna voleva a casa.

I ricordi più dolorosi sono sicuramente legati alla vita nei campi di sterminio, agli spostamenti tra un lager e l’altro (Auschwitz, Dachau, il piccolo campo di Kaufering), agli espedienti per andare avanti, al dover trovare, giorno dopo giorno, chissà dove, la forza umana per sopravvivere. Nel ripercorrere gli anni ungheresi, Edith Bruck dedica alcune righe all’omaggio di due Giusti tra le nazioni, figure le cui vicende che si prestano alla didattica per gli studenti delle scuole primarie, dove il racconto delle persecuzioni antiebraiche si intreccia al coraggio di che seppe opporsi alle deportazioni.

"Poi accennò molto confusamente a un diplomatico spagnolo che aveva salvato migliaia di ebrei a Budapest. E io scoprii solo negli anni Ottanta che il falso console spagnolo era il commerciante italiano Giorgio Perlasca di Padova, e quel sant’uomo me lo trovai accanto, alto, magro, mite, umile, con dei lampi di dolcezza sul volto e fermezza nello sguardo e mi chiesi: ‘Che dirgli? Grazie’ Ci sono parole che è possibile esprimere a un ex fascista che ha compiuto qualcosa di incredibile nei tempi più bui in Ungheria, alleata alla Germania nazista? Cosa si può dire a un uomo qualsiasi che non ce la faceva più a vedere i massacri dei propri simili? Fu un moto dell’anima a ispirargli l’idea geniale di spacciarsi per il console generale di Spagna, cosa che gli permise di salvare, a rischio della propria vita, migliaia di innocenti destinati all’annientamento per ragioni puramente razziali. E così fece il vero diplomatico svedese Raoul Wallenberg, che aveva agito allo stesso modo, nella stessa epoca, a Budapest, da dove, all’arrivo dell’armata sovietica, la sua vita luminosa prima finì in prigione, poi venne inghiottita nell’oscurità più fitta, senza un raggio di luce, di verità sulla sua morte a soli trentadue anni."

Dall’orrore dello sterminio ebraico la narrazione volge al pellegrinare del dopoguerra, quando con la sorella Judit “non osavamo ancora parlare del futuro, pur essendo piene di futuro. Era diventato un argomento tabù”. Anche questo rimane uno dei topoi della narrativa o della memorialistica delle persecuzioni antiebraiche: la seconda guerra mondiale è ormai finita, ma la Shoah rimane ancora lì, tragicamente invasiva e con i traumi conficcati nella psiche di chi è sopravvissuto. Bisognerebbe allora soffermarsi sul ritorno alla vita raccontato da Edith Bruck, un continuo cercare – e forse ritrovarsi – tra un paese e l’altro: i giorni nel nuovo Stato israeliano e il sogno della “terra promessa”, gli espedienti per andare avanti e i matrimoni, il lavoro in Grecia e infine l’approdo in Italia, della quale si definisce “figlia adottiva” e dove si è sposata con Nelo Risi, vivendo fino ad oggi.

Bisognerebbe aggiungere questo e tanto altro al commento del volume, ma è bene fermarsi al fatto che la pena della Shoah non finisca. E allora è forse nel titolo, in quel "pane perduto", che si trova lo scopo di questo volume e che ritorna nella conclusione, dove Edith Bruck si affida a una lunga preghiera a Dio, in cui gli chiede appunto di non perdere quella memoria che è – ed è stata – il suo "pane quotidiano". Una vicenda che per certi versi ricorda quella di Nedo Fiano, instancabile testimone della Shoah, che ha vissuti gli ultimi anni con la perdita dei ricordi.

Si apre così una riflessione conclusiva. Nel momento in cui i testimoni perdono i loro ricordi personali sotto l’incidere insensibile degli anni e dei malanni, allora quella memoria diventa anche il nostro di pane da non perdere: questo libro, e i tanti altri della letteratura sulla Shoah, diventano così un modo per non disperdere quanto fatto sino ad oggi, per affidare alla parola scritta quello che i ricordi non ricordano più, per affidare alle nuove generazioni – quando la voce e la memoria dei Testimoni ci avrà inesorabilmente abbandonato – il compito di tramandare quanto accaduto durante la Seconda guerra mondiale.

Consigliato: Secondaria di primo e secondo grado.

Tags: SHOAH, edith bruck


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