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EMANUELE DI PORTO

La storia di ottobre

EMANUELE DI PORTO

Emanuele Di Porto nasce a Roma nel 1931, nel cuore del ghetto della città.

Cresce in via della Reginella in una casa piuttosto affollata; con i genitori - Virginia Piazza e Settimio Di Porto – vivevano i sei figli, le due zie e i cugini. Tre famiglie nello stesso appartamento, ognuna in una stanza.
Ha appena 7 anni quando vengono promulgate le leggi razziali, il lavoro è sempre più raro e la vita nel quartiere diventa difficile, e peggiora ulteriormente dopo la firma dell’armistizio e l’occupazione tedesca nel 1943. Il padre di Emanuele è un urtista, cioè vende souvenir di Roma e ancora durante l’occupazione riesce a lavorare svegliandosi in mezzo alla notte per essere già dall’alba alla stazione centrale di Roma Termini a vendere ricordi ai soldati di ritorno dal fronte.

Settimio è fuori casa anche la mattina del 16 ottobre, quando verso le cinque la moglie Virginia sente le voci e i rumori dei passi dei soldati nazisti e – convinta come molti che volessero arrestare solo gli uomini – si veste per andare ad avvertire il marito di non rientrare. Dice ai figli di aspettarla a casa, raccomanda loro di non uscire e va alla stazione dove trova Settimio, gli racconta cosa sta succedendo e decidono insieme che sarebbe stato meglio che lui vada a nascondersi a casa di una sorella nel quartiere romano di Testaccio.

Sulla strada del rientro, Virginia viene fermata in piazza Mattei e caricata su una camionetta dai nazisti. Emanuele, dodicenne, vede la scena dalla finestra e d’istinto corre giù chiamando la madre e piangendo. La madre cerca di mandarlo via ma Emanuele non riesce ad allontanarsi e non vuole lasciarla là da sola e rimane così come paralizzato a guardarla fino a quando un soldato lo vede e fa salire sul camion anche lui; Virginia prova a convincere i nazisti che il ragazzo non è ebreo e riesce a spingerlo giù. Emanuele a quel punto inizia a correre senza una meta e quando arriva in piazza Monte Savello dove all’epoca c’era il capolinea del tram, non sapendo cosa fare, sale sul primo che trova.

Al bigliettaio confida: “Guarda che sono ebreo. Mi stanno cercando i tedeschi”

Sono le sei del mattino e piove, l’uomo gli fa cenno di salire e gli dice di mettersi vicino a lui. Il bigliettaio e il tranviere condividono con Emanuele il loro cibo e, alla fine del turno, raccomandano il bambino ai loro colleghi. Così per due giorni rimane sul tram protetto e sfamato da tranvieri e bigliettai. La terza mattina fortunatamente sale sul tram un amico di famiglia che lo riconosce e lo accompagna a casa dal padre che pensava che anche Emanuele fosse stato preso nella retata.

Qualche mese dopo l’arresto della madre, nel febbraio del 1944, dei fascisti irrompono a casa Di Porto e prendono lo zio, Pacifico Di Consiglio – marito della sorella di Virginia. Emanuele, testimone dell’arresto, è nascosto sotto al letto e e da lì lo vede portare via.

E quella fu l’ultima volta che vide lo zio, come quella mattina del 16 ottobre fu l’ultima volta che vide la madre. Entrambi, Virginia e Pacifico, furono deportati ad Auschwitz-Birkenau dove superarono la prima selezione ma non riuscirono a sopravvivere.

Con la fine della guerra e la certezza che la moglie non sarebbe più tornata, Settimio entra in depressione e tocca al figlio Emanuele lavorare per mantenere la famiglia. Con il tempo la situazione economica migliora e Emanuele si sposa e ha due figli.

Non smetterà mai di pensare alla madre il cui ricordo – insieme a quello di quella tragica mattina - rimane vivido nella sua memoria: “lei era bellissima, aveva 37 anni e non l'ho mai più rivista".

 

Tags: 16 ottobre, Rastrellamento ghetto, Emanuele Di Porto, deportazione ebrei di Roma


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